Il servizio clinico per il bambino e la famiglia
di Fulvio Sciamplicotti, Vittoria Luciani, Daniela Milli ,Patrizia Rubbini Paglia, Simona Parigi, Mario Sgambato, Silvia SossiIl lavoro clinico con un bambino portatore di un sintomo offre al terapeuta l’occasione di porsi come osservatore privilegiato della sua crescita, consentendogli di partecipare allo sviluppo della sua storia personale e familiare. Anche in quelle situazioni familiari più patologiche e compromesse, i bambini possono essere in grado di introdurre una visione di speranza e di cambiamento, se considerati come interlocutori validi rispetto al processo terapeutico. L’obiettivo di restituire voce e rispetto al bambino durante la terapia con la famiglia è sia un privilegio che una sfida. L’aspetto della sfida può essere rappresentato dalla necessità di assumere un punto di vista diverso da quello “adulto-centrico”.
Il dato culturale dominante, sia scientifico che comune, propone infatti la convinzione che i bambini non abbiano alcuna competenza riguardo la loro stessa vita, benché esercitino un gran potere sulla vita degli adulti e questo rischia di rinforzare l’idea del bambino come fruitore passivo e non competente. I bambini, al contrario, compiono quotidianamente degli atti di coraggio e di fiducia verso il mondo e il futuro che spesso non sono visti o ignorati dalla cultura dei grandi. Per questi, sostegno, cura, educazione, protezione, responsabilità sono espressioni a senso unico, cioè dall’adulto al bambino.
Quando però i genitori non sono in grado di assolvere a tali compiti, il bambino è disposto ad assumere su di sé la responsabilità degli adulti e a divenire compiacente nei confronti dei loro bisogni, trascurando i propri, fino a compromettere il proprio percorso di crescita.
Il lavoro dell’equipe del “servizio clinico per il bambino e la famiglia” fa riferimento al modello di Maurizio Andolfi. L’elemento centrale del suo modello epistemologico si fonda sull’idea che il bambino sia un soggetto competente e che il problema infantile sia un problema familiare. Ciò che guida il nostro lavoro clinico è la ricerca delle competenze e delle risorse del bambino e della famiglia.
Ma come riconoscere che un bambino è competente quando porta una sofferenza o un sintomo tali da allarmare e attivare tutti, terapeuti compresi? E ancora, su quali risorse lavora il terapeuta, se il bambino gli appare “danneggiato” ed i genitori “danneggianti in quanto incompetenti”? A seconda che ci si focalizzi sul danno subito dal bambino o sul danneggiamento agito dai genitori, la posizione del terapeuta può oscillare tra la protezione del bambino e la colpevolizzazione del genitore; tra la riparazione del danno del bambino e la ‘correzione’ dei comportamenti inadeguati del genitore; tra la speranza che le cose potranno cambiare per quel bambino man mano che crescerà e la frustrazione che essendogli toccati in sorte quei genitori, le cose non cambieranno mai.
Liberarsi dai pregiudizi sui genitori come possibili danneggiatori dei figli e acquisire un pensiero non giudicante é uno degli ethos del nostro gruppo di lavoro. Questo salto é possibile quando si riesce a distinguere il comportamento che il genitore mette in atto nel suo compito di cura e crescita, dalla motivazione che sottende a tale comportamento: rispettare cioè l’idea che quel genitore sta facendo del suo meglio per il figlio, anche se questo meglio non si traduce nel migliore benessere per il figlio stesso. La strada percorribile diventa, quindi, quella di allearsi con il desiderio dei genitori di fare del loro meglio, ricontrattandone però le modalità.
In coerenza con questo pensiero, è importante esplorare il significato ed il vissuto di incompetenza che i genitori portano nel momento in cui fanno una richiesta di aiuto rispetto al loro figlio. La nostra idea di competenza genitoriale, infatti, non si sostanzia solo nell’agire abilità individuali (per es. saper accudire, educare, dare regole) quanto, piuttosto nella capacita di costruire insieme al proprio figlio un progetto di crescita in modo tale che la competenza di un genitore possa incontrare e riconoscere quella di un figlio.
La nostra esperienza clinica ci conferma che la competenza dei genitori può essere co-costruita nel corso della terapia, già dal momento in cui questi fanno una richiesta di aiuto. Infatti, la percezione della propria competenza si sostanzia già nel modo in cui leggono, raccontano ed interpretano il disagio del proprio figlio.
Nel sistematizzare il materiale clinico raccolto negli anni, abbiamo così individuato le domande che più frequentemente i genitori portano quando fanno una richiesta di intervento familiare per un figlio sintomatico. Rileggendole come modalità di espressione della propria incompetenza, abbiamo messo tali domande in relazione al comportamento osservabile del bambino in terapia. Contemporaneamente abbiamo evidenziato i possibili rischi di collusione del terapeuta, quando legge in modo univoco l’incompetenza genitoriale come un “vuoto da riempire” e non come un “pieno da valorizzare”. Tale suddivisione è a titolo esemplificativo e sottintende l’idea che una stessa famiglia possa presentare, a seconda delle fasi attraversate, una o più di tali modalità.
L’incompetenza portata dalla famiglia
Mio figlio non funziona, aggiustatelo voi
Non funziono come genitore per questo mio figlio si comporta così
Mi hanno consigliato di venire da voi
Ditemi che non ho provocato un danno irreparabile a mio figlio
L’incompetenza portata dal bambino
Il problema sono io
Tutto funzionerebbe se non ci fossi io
Il problema non sono io
Sono stato danneggiato
La collusione del terapeuta
Meccanico: vi aggiusto io
Giudice:assolvere o condannare i genitori
Valutatore dei sintomi: siete nel posto giusto
Pompiere dei sintomi
Quando la richiesta di terapia si sostanzia in “Mio figlio non funziona, aggiustatelo voi” i genitori sembrano esprimere una resistenza ad entrare in contatto con il disagio psicologico del figlio ed una difficoltà a farsene empaticamente carico. Il turbamento portato in terapia è per lo più riferito al sentirsi “osservatori impotenti” di fronte ad un problema percepito come incomprensibile. La domanda manifesta è quella di “affidare il bambino agli esperti affinché venga riportato ad uno stato di normalità”. Fanno fatica a vedersi come parte del problema che il bambino porta ed attribuiscono a lui la scarsa volontà di “guarire” come se il sintomo avesse un’intenzionalità. Quasi sempre il comportamento del bambino in seduta ha una funzione rassicurante nei confronti dei genitori poiché, attraverso una serie di manifestazioni, conferma la convinzione che davvero il problema sia solo lui, mostrandosi come il focus sul quale si deve per tanto, concentrare l’attenzione degli adulti. In linea con quanto descritto, il rischio per il terapeuta può essere quello di accogliere la richiesta della famiglia di aggiustare il guasto del bambino, assumendo il ruolo di “meccanico” ovvero del tecnico che può riparare il guasto.
Nella seconda tipologia abbiamo voluto rappresentare situazioni riferite a genitori eccessivamente ansiosi nel guidare la crescita dei propri figli a causa della percezione di se come genitori inadeguati. Il sintomo del figlio, quando spinge il genitore a fare richiesta di terapia, viene letto come espressione della propria incapacità.(“Non funziono come genitore per questo mio figlio si comporta così”) .In questi casi i due partner possono avere un atteggiamento che conferma l’inadeguatezza reciproca in una condivisione di un “handicap genitoriale” o, al contrario, agire una contesa in cui l’inadeguatezza diviene l’oggetto di svalutazione tra i coniugi . In entrambe i casi il tema dominante è quello del bisogno di riconoscimento e al bambino viene delegata la responsabilità di confermare continuamente l’adeguatezza o meno del genitore. Il sintomo può rappresentare, in questi casi, l’espressione della fatica sostenuta dal bambino di fronte a questa gravosa inversione di ruoli. Di fronte a tale richiesta il terapeuta corre il rischio di collusione assumendo il ruolo di giudice, che assolve o condanna, assestandosi, così, esclusivamente sul bisogno di conferma di Sè espresso dai due partner.
La terza situazione, è quella relativa a genitori che arrivano su indicazione di un altro specialista, della scuola o di terzi “istituzionali”. La richiesta di terapia familiare non sembra nascere da una riflessione reale sulle difficoltà che il bambino e la famiglia stanno vivendo, ma come risposta ad un terzo. Solitamente il livello di allarme è molto alto perché i sintomi che il bambino presenta sono seri, multiformi ed esibiti in più contesti (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari). L’incompetenza dei genitori si esprime in un profondo senso di stanchezza e di impotenza. Di solito hanno già provato altre strade (terapie individuali per il figlio, insegnanti di supporto per i compiti, uno sport che disciplini il comportamento) ma ogni sforzo profuso appare vano. Quasi sempre accade che i genitori facciano una richiesta esplicita di una diagnosi. Il bambino sembra proporre un paradosso ai genitori “nonostante facciate di tutto, non funzionate”, confermando il loro bisogno di ricorrere alla delega e all’esperto. Allo stesso tempo, forte è per lui il timore di una valutazione e gli elementi basati sul controllo, di ciò che avviene in terapia, sono preponderanti. Di fronte a questo tipo di richiesta il rischio di collusione del terapeuta sta nell’assumere il ruolo di tecnico valutatore, che focalizza l’intervento prevalentemente sul sintomo e sulla sua diagnosi trascurando la complessità dei contesti in cui il sintomo stesso prende forma e significato.
La quarta tipologia di richiesta di aiuto si riferisce essenzialmente al vissuto dei genitori di poter causare, o aver già causato, un “danno” al proprio figlio, danno che vedono concretizzarsi proprio nel sintomo che egli manifesta. Si tratta spesso di persone che si sentono sopraffatte dalle difficoltà contingenti, intrappolate in una visione ristretta della propria vita che raccontano caratterizzata da avversità, sofferenza, paura. In terapia portano spesso l’attenzione su ciò che a loro ed ai figli manca, su ciò che non funziona, sul bilancio tra gli sforzi profusi e i risultati ottenuti, sia come genitori nella loro famiglia attuale, che come figli nella loro famiglia d’origine. Il vissuto di avere in qualche modo danneggiato i figli o di essere potenziali danneggiatori, nasce primariamente da quello di essere stati a loro volta dei figli danneggiati. Ritengono i propri genitori, ma anche se stessi, attraverso la relazione coniugale e genitoriale attuale, responsabili del funzionamento familiare, sia sano che patologico, in una sorta di contagio tra le generazioni. L’alta conflittualità nei rapporti intergenerazionali, i sentimenti di carenza e di perdita non risolti, la difficoltà a ridimensionare le proprie proiezioni interferiscono negativamente nella capacità di questi genitori di valutare realisticamente il proprio figlio e i suoi bisogni. Lo sviluppo dei figli è così vissuto come un processo prevalentemente doloroso e minaccioso, nel quale, alla fine, genitori e figli diventano avversari. Così accade che i sintomi del bambino siano percepiti ora come fallimento del proprio tentativo di riparare/risolvere i conflitti sviluppati nella famiglia d’origine, ora come attacco contro loro stessi, raramente come espressione di una sofferenza personale e che le normali manifestazioni dello sviluppo non possano essere viste rispetto ad una linea di normalità ma spesso confuse con il rischio di problematicità. Il bambino porta spesso in terapia rabbia e provocazione, sia verso i genitori che i terapeuti, creando confusione e tensione. Diviene così difficile per tutte le persone coinvolte nel setting distinguere le manifestazioni sintomatiche dalle affermazioni legittime di sé.
Quando la famiglia arriva “spaventata” di fronte al dubbio di aver determinato un danno irreparabile al figlio ovvero di perpetuarlo, il rischio di collusione del terapeuta è di assumere un ruolo rassicurante, attuando un ridimensionamento o una negazione del valore del sintomo. L’errore di normalizzare la disfunzionalità, agendo in terapia come un pompiere che spegne gli incendi, incrementa nel sistema familiare il vissuto di incompetenza tanto quanto il patologizzare i processi normali.
Il percorso terapeutico necessario per restituire competenza alla famiglia, consiste nel rintracciare i fili intergenerazionali che consentono di dare senso a quella particolare rappresentazione di incompetenza che i genitori stessi portano in seduta. La costruzione dei nessi significativi permette, infatti, al terapeuta di andare a ricercare da dove prende origine quella particolare rappresentazione del problema del figlio rispetto alla storia di quella specifica famiglia.
Il sintomo del bambino viene, quindi, letto come il modo che questi usa per garantire una coerenza al sistema familiare secondo l’ottica in cui “il bambino non è il problema ma sta lottando contro il problema stesso”.
L’introduzione della dimensione temporale trigenerazionale, tuttavia, deve essere accompagnata dall’accoglienza, da parte del terapeuta, della preoccupazione che la famiglia porta, in una sintonizzazione reciproca che permetta la co-creazione di nessi significativi. Il coinvolgimento attivo della famiglia deve passare attraverso un pensiero non giudicante e non pedagogico, con l’obiettivo di costruire una motivazione congiunta tale da evidenziare la differenza tra il concetto di responsabilità e quello di colpa (Andolfi, 2007).
Seguendo questa modalità le famiglie possono unirsi ai terapeuti nel vedere il problema di un bambino come un problema familiare e usare, di conseguenza, la terapia come contesto in cui rinegoziare le relazioni familiari. Proprio all’interno del problema presentato dal bambino, si possono così andare a rintracciare le risorse da riattivare, favorendo la comprensione da parte della famiglia del problema stesso.
L’aspetto più importante di questo modo di procedere è la restituzione di competenza relazionale al bambino, attraverso la costruzione di un’alleanza con lui e con il suo problema . In questo senso può assumere importanza la strategia del “do ut des “ che prevede una sorta di contrattazione della riduzione del sintomo da parte del bambino in cambio di una maggior presa in carico dei suoi bisogni da parte dei genitori ( Haley J, 1985). Questa ridefinizione permette al bambino di divenire soggetto attivo, capace di far circolare in seduta un senso di competenza anche tra i genitori consentendo loro il recupero di risorse bloccate e il superamento di sentimenti di frustrazione, fallimento, colpa, impotenza.
Il sintomo diventa, allora, la chiave di accesso alla dimensione temporale della famiglia, che in una continuità evolutiva, non causalistica consente al terapeuta di dare spazio, non solo al passato e al presente, ma anche al futuro .
Il problema attuale del bambino viene storicizzato attraverso una ricollocazione e ricontestualizzazione del sintomo rispetto ai piani superiori, evidenziando il ruolo delle dinamiche della coppia nel mantenimento del problema. Si può procedere, così, attraverso il racconto della storia dei genitori come figli, e quello di loro come coppia, all’individuazione di quei blocchi evolutivi che possono aver portato l’intero sistema familiare alla difficoltà presente, con l’obiettivo terapeutico di costruire insieme una co-genitorialità bilanciata. La famiglia potrà ristrutturarsi sul nuovo significato attribuito al sintomo solo quando tale lettura sarà condivisa da tutti, e sarà coerente con la storia personale, di coppia e genitoriale.
Ci preme infine sottolineare , come per stimolare qualsiasi processo di cambiamento all’interno della famiglia, vada in primo luogo restituita ai genitori la dignità e la capacità di garantire al bambino il ruolo di protagonista nel suo percorso evolutivo futuro.
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